LA MEZZA PORZIONE di Marco Bucciantini
Non è bello avere rimpianti, nella vita. Rendono solo le cose più difficili da capire. E sono i peggiori affanni della vecchiaia, scriveva Pavese.
Ma alla vecchiaia c'è tempo. Non ce n'è più per rimediare qualcosa, in questa stagione. E le nostre domeniche sono perfino insensate, se non fosse che tutto ha un senso, sempre. Però un rimpianto mi punge e lo dico subito: ho visto Pazzini invertire il campionato, trovando posizione in area, su per aria e rasoterra. Da dominatore, in uno stadio totalmente avverso. Credo che Pazzini sia un campione, e adesso mi manca come un affetto perso senza aver fatto in tempo a dirgli ti amo. E mi manca il suo modo sorridente di starci, e quegli occhi sgranati nell'esultanza.
Ma se ci attanagliano questi pensieri perdenti è perché stiamo dubitando scioccamente delle certezze di ieri. All'apparenza, sulla partita c'è davvero poco da dire: per carenze fisiche e per aver svuotato per tempo il serbatoio delle energie mentali la Fiorentina ha smesso di essere squadra. L'Atalanta e il Chievo no. Così stiamo svilendo una stagione che ci ha avvicinato alle grandi squadre europee e ci vede finire accanto alle piccole provinciali italiane. Non dobbiamo cedere agli alibi e se devo dire quello che penso, i tre infortuni ci hanno permesso di vedere una squadra migliore: Vargas è migliore come terzino rispetto a Felipe, Natali in questo momento è superiore a Gamberini, e Ljiajc è stato l'unico giocatore viola fresco di gambe e di pensiero (e sarebbe giusto farlo giocare, per dare sapore a questo boccone insipido di stagione). Difettiamo come squadra, e da un pezzo: lo dimostrano – impietosamente – i gol subiti da gennaio ad oggi. Tutte le squadre ci fanno male, in trasferta e anche al Franchi. Conviene vedere più avanti, dunque, rispetto ai motivi psico-fisici. La Fiorentina si è sfarinata. L'ambiente si è avvitato attorno a polemiche premature, la proprietà si è depressa davanti alle lungaggini della politica, che fatica a marciare al passo degli imprenditori, l'allenatore non ha saputo sottrarsi alla lusinga di vedersi accostato alle panchine più importanti della Penisola, i migliori giocatori sono mancati di una qualità che è insita nei campioni: l'orgoglio. E perfino quella superbia, quell'amor proprio che ti fa ribellare allo sprofondo. Arrivare ottavi o undicesimi non è la stessa cosa: chi pensa questo è un perdente. Bisogna spingere sempre a tutta, abituarsi alla prestazione migliore possibile, piena, da cima a fondo. Invece andiamo avanti a scampoli di partita, mezz'ora a Bergamo, venti minuti col Chievo, un tempo con il Parma, 60 minuti con l'Inter. Alla vigilia di tutte queste partite abbiamo apparecchiato la tavola con grandi discorsi e poi ci siamo alzati dopo mezza porzione. Rimpiango la fame vera dell'autunno, quando tutto ci era ancora possibile.
Prima di parlare di nomi, acquisti cessioni contratti...ridateci una squadra che sia professionale, che esca dal campo quando è finita. E che si arrabbi con l'arbitro, quando fischia la fine, perché vorrebbe restare in campo, a giocarsela ancora un po', come quando mamma ci richiamava in casa dalla finestra, “basta con il pallone”; e noi non volevamo finirla mai.