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"DICA CHE NON ANDRA' ALLO ZENIT". I DELLA VALLE ED IL PARADOSSO DEI GRANDI ALLENATORI NON AZIENDALISTI

di Marco Conterio

Il Paulo Sousa cittadino mica deve giustificare le sue cene. Pure fossero eleganti, affari suoi. Va dove vuole, mangia cosa vuole, spende quanto vuole. Certo, quei seimila euro sussurrati per la cena fanno quanto meno pensare ad una parola. "Salute". Amen. Il Paulo Sousa allenatore, però, deve spiegarle. Chiarire, perché stipendiato da una società e soprattutto guida tecnica di una squadra di calcio che vive grazie all'amore dei suoi tifosi. Che in questi giorni s'interrogano: l'allenatore è e sarà sempre concentrato sulla stagione in corso? No, perché se giustamente gli italiani storcono il naso se Antonio Conte va in Inghilterra ad incontrare i giocatori del Chelsea, i fiorentini quanto meno alzano un sopracciglio davanti alla notizia. "Incontro con lo Zenit". E siccome di chi scrive ci fidiamo, non dubitiamo della bontà delle fonti. E dal momento in cui Sousa non smentisce, magari la pulce inizia a ronzare. E visto che chi gli è sempre stato vicino parla di pochissime chances di conferma a Firenze... Beh, il due più due è facile.

Che poi viene da farsi una domanda. Anzi, da mettersi davanti agli occhi un paradosso: perché i Della Valle continuano a portare a Firenze grandi allenatori? Sì, avete letto bene. Perché? Cesare Prandelli è stato l'esempio primo, massimo. Poi Vincenzo Montella, adesso Paulo Sousa. I Della Valle non capiscono, evidentemente, che l'allenatore non è il dipendente d'azienda ma primo imprenditore di sè stesso. I contratti nel calcio sono determinati, dorati ma ben più che precari. Per un tecnico più che per ogni altro rappresentante del pallone. Sicché bisogna star attenti a non accontentare il tecnico, a remargli contro o a non soddisfarne le esigenze. Perché poi è lui il manico dell'acceleratore della moto, viola nel caso. Disegnare una strategia di mercato insieme al tecnico è uno dei passi più importanti e se in estate era stato fatto, a gennaio non sono arrivati tutti gli uomini chiesti da Sousa, per usare un eufemismo. E non è stata solo questione di strategia, ma anche e soprattutto di budget.

Sicché l'interrogativo si ripropone. Perché la Fiorentina, che a fine stagione separerà presumibilmente le sue strade da quelle di Paulo Sousa, non prende un uomo ed allenatore più aziendalista, che meglio si confà alla visione del calcio/azienda della proprietà? Nulla di male. Non è affatto un difetto, è soltanto un modo diverso d'interpretare il mestiere. Roberto Donadoni era, e magari è ancora, il nome perfetto. Stefano Pioli un altro. Insomma, uno capace di ascoltare, capire e pure sopportare maggiormente le volontà della proprietà. Uno meno imprenditore di sè stesso, come (peraltro giustamente) sono stati Cesare Prandelli, Vincenzo Montella ed ora Paulo Sousa. Che, intanto, dal canto suo, dovrebbe più che potrebbe dare qualche spiegazione in più. A chi lo stipendia ed a chi lo supporta.