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GENOVA, LA SERIE A E LA COMMOSSA INSENSIBILITA' DI UN PALLONE CHE NON VUOLE FERMARSI

di Marco Conterio

Non può esserci spazio per il calcio. Per il calciomercato. E scriver fuor di retorica di un sogno e di un crollo, unendoli nella stessa frase, è tutt'altro che semplice. Però il silenzio è l'arma che questo mondo ha deciso di posare, schiacciato dalle macerie della miseria umana. Quel che ieri ha provato a sottolineare la Fiorentina è che, quando una tragedia come quella di Genova colpisce un paese, una Nazione, un popolo intero, dovrebbe essere scontato tornare a ripensare alle proprie priorità. Che è quel purtroppo ciclicamente accade ad ogni evento di questa disumana portata, col cordoglio da subito troppo presto spazzato via dai venti dell'oggi. Della futile opinione. Del tutto che in verità è un niente.

Fermarsi era un obbligo e che una partita si possa disputare nel giorno del lutto nazionale, o a poche ore dai tanti rintocchi delle campane all'ombra della Lanterna, è solo un triste specchio di un sistema, di un mondo, che ha smarrito l'anima. Al soldo del denaro, dell'immagine, alla luce della telecamera, è stato svenduto quel silenzio che doveva riecheggiare su spalti vestiti a lutto. E non a festa, perché quello il calcio deve essere. L'apoteosi di un amore e di una fede, lo stadio come teatro supremo e non come surreale e conteporaneo evento mentre l'Italia, la Liguria, Genova, piangono.

Genova siamo noi, o almeno dovremmo esserlo. Il richiamo di Massimo Ferrero, della Fiorentina, sono stati ascoltati ma solo a metà. Purtroppo. Non ci può essere festa ma così sarà. Nel giorno di, il giorno dopo. Senza che festa sia davvero, in questo mondo surreale, dove i ponti crollano e le arterie travolgono l'anima di un popolo inerme. Mentre il carrozzone va, avanti. Non una voce, dalle Leghe, affinché si pensi altrimenti a devolvere gli incassi alle famiglie colpite. A un'altra iniziativa che un paese più umano, un sistema più sano, nelle sue alte sfere e in chi lo guida o dovrebbe farlo, avrebbe già pensato. Genova siamo noi, sì. Siamo quei soccorritori. Quei ragazzi dipinti di blucerchiato e di rossoblù che in quella immagine straziante, sorreggono le due estremità di un ponte che non c'è più. Di un'Italia che resiste, che esiste. Ma non lassù. Dal pallone in poi.