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IL DISTACCO DEGLI INTELLETTUALI

di Pier Francesco Listri
Immagine ripresa da youtube

Fra le tante magagne del calcio, ce n’è una di cui non si parla, e che invece conta, e tocca anche la Fiorentina.
Le magagne grandi si sanno ormai a memoria. Dalla vecchia alla nuova calciopoli, dal calcio come impresa ormai solo capitalistica, alle scommesse, agli ingaggi giganteschi, alle bizze dei campioni.

Ma una perdita secca per la bellezza, il piacere, il senso di questo gioco che è il più appassionante del mondo, è l’ormai consumato distacco dal calcio di quanti, facenti parte di altri mondi e apparentemente lontani dal bla bla quotidiano abbastanza logoro, partecipavano al calcio con una passione indefettibile, ma anche con un distacco critico che aggiungeva qualcosa all’intelligenza di una partita, alle risse di un derby, alle disavventure di una società o di una squadra.
Perché scrittori, artisti, intellettuali - il fenomeno dura ormai almeno da un ventennio  – si sono  staccati, hanno voltato le spalle, pare, dal verde rettangolo del giuoco? Nelle tante  questioni che ultimamente e ancora oggi segnano la vicenda calcistica, non una voce s’è alzata, non un articolo s’è letto, non un consiglio, magari indignato, s’è ascoltato a portare un meditato contributo critico o semplicemente a ricordare le ragionevoli possibilità per uscire dalle baruffe e dagli errori.

Chi ha memoria più lunga rammenta le appassionate cronache di scrittori come Vasco Pratolini, o del poeta Alfonso Gatto, o di scrittori tutti fiorentini come Bigongiari o Alessandro Parronchi, e perfino del silenzioso ma sempre partecipe grande Mario Luzi (come vedete resto in casa, e penso alla Fiorentina).
In anni non lontani Antonio Ghirelli intitolava un suo libro a “Gianni Mezz’ala”, Lanfranco Caretti scriveva un libro, dalla sua cattedra universitaria fiorentina, sul linguaggio del calcio, lo stesso faceva Giorgio Bocca. Mentre il romanziere Giovanni Arpino scriveva della Nazionale nel suo “Azzurro tenebra”, Gianni Brera che era ben più di un cronista, inventava un nuovo linguaggio per partite e campioni, Arbasino satireggiava da pare suo sui vizi di questo giuoco, fino agli accalorati dibattiti, discutibili ma sempre intelligenti, di Beha.

Il distacco e il disamore di cui ho parlato, lo denunciano anche le tribune d’onore dove pochi uomini delle istituzioni siedono ormai con compassata abitudine. Forse la passione divertente e perfino scomposta del presidente Pertini a inneggiare alla Nazionale fu l’ultimo segno di una davvero autentica partecipazione delle alte istituzioni, felicemente scamiciate, alle vicende del  calcio, cioè del maggior mito dei tempi moderni.
Ecco, tutto continua, ma se il mito si scolora, anche nei più sottili e autorevoli testimoni, allora il calcio imbocca una strada  che ne  dimezza il senso e la bellezza.